Verso l’inizio degli anni Sessanta alcuni artisti cercarono una diversa relazione con l’osservatore, immaginando nuovi modi di incontrare lo sguardo del pubblico, di ottenere e dare ascolto attraverso la loro opera; modi che offrissero una comunicazione più diretta e una diffusione più ampia del loro lavoro, sfuggendo a una ritualità dell’arte che si era andata codificando dalla fine dell’Ottocento. Cercarono affacci su altri mondi espressivi, su altri linguaggi, sentieri non nuovi, anzi, tracciati in tempi lontani, da ripercorrere però in cerca di differenze, scarti e possibili equivalenze con le forme dell’arte visiva.
La parola - il testo scritto e pronunciato - apparve allora come l’altra faccia dell’immagine, un’antica sorella fatta di una materia più sottile, più agile, forse più schietta e universale. La scrittura sembrò dover restituire all’arte il debito d’intelligibilità contratto ai tempi dei cicli pittorici medievali, delle illustrazioni ai margini dei codici, del corredo di immagini che i predicatori portavano con sé, a stemperare la chiusa sacralità del verbo, per farsi comprendere dai più.
Quel bisogno di chiarezza era anche un rinnovato bisogno di autenticità: essere capaci di porsi di fronte al pubblico per provare a dire sé stessi e a dire il mondo, consapevoli di tutto ciò che già era stato detto e di come lo si era detto, perché anche gli ascoltatori si facessero attenti nei confronti delle loro stesse parole e delle immagini sempre più diffuse, e sospettosi verso ogni retorica, ogni prassi comunicativa.
Alcuni artisti presero in mano fogli, pagine, testi scritti di ogni sorta, composti da loro o da altri autori e di fronte a piccoli e grandi uditorii, a volte davanti alla telecamera, si disposero a leggere. Usarono il proprio volto, la propria mimica, il proprio timbro vocale per dare forma e immagine al testo, impersonandolo, analizzandolo, sovvertendolo. Usarono e insieme dissacrarono l’antica pratica della lettura pubblica, la lettura ad alta voce, atto civile e comunitario che scioglieva la chiusa catena di lettere che rinserrava nei volumi lo svolgimento dei testi, scritti senza interpunzione e pause, per trasformarli attraverso la pronuncia e il corpo del dicitore in parole, frasi, accenti, significati in atto.
Alcuni video, realizzati tra gli anni Settanta ed oggi, danno conto nell’esposizione Lettura per voci e silenzio di una ben piccola parte dei molti aspetti che l’esercizio della lettura pubblica ha assunto in questi decenni nel lavoro di diversi artisti.
Three Feathers and Other Fairy Tales del 1973, fu realizzato da John Baldessari leggendo di fronte a una telecamera alcune fiabe inglesi. Scelse dunque la forma letteraria che più spesso viene letta ad alta voce e quella che più di ogni altra lega la cultura contemporanea alla tradizione orale. Tuttavia Baldessari rifuggì dalla coloritura tipica con cui si narrano le favole. Raffreddò il suo dire fino a una voluta noncuranza. Inceppò deliberatamente l’incanto, per ottenere il risveglio degli adulti più che il sonno dei bambini.
Un decennio più tardi Martha Rosler, per il programma di una televisione via cavo di New York, Paper Tiger Television, realizzò la performance dal vivo Martha Rosler Reads " Vogue ", 1982. Il suo procedimento è inverso a quello di Baldessari: il disvelamento dei meccanismi del discorso avviene attraverso l’esagerazione quasi macchiettistica del processo d’identificazione e del desiderio proiettivo di una tipica lettrice della fortunata rivista di moda.
A queste due opere storiche l’esposizione accosta due video più recenti: I am with you in Rockland del 2006 di Karl Holmqvist e In pasto al presente #3, 2014, di Concetta Modica. Holmqvist pronuncia fuori campo un testo in cui modi di dire, frasi pubblicitarie, versi di canzoni popolari, vengono cuciti con passi tratti da Howl di Ginsberg in un unico componimento poetico. L’andamento strascicato e cantilenante della voce dell’autore congiunge lessici difformi e nel farlo si affida alla pronuncia e alle assonanze ancor più che al significato. How do you say è il verso ossessivamente ricorrente, quasi un ritornello, come un nascosto ammonimento sull’impossibilità di leggere una poesia senza pronunciarla, e forse anche di conoscerne il senso più intimo se non attraverso la voce, il timbro, la presenza fisica dell’autore.
Concetta Modica raccoglie invece stralci di conversazioni, confidenze, affermazioni di artisti contemporanei. Le compone in una sequenza senza autori, come fosse il discorso corale dell’arte del nostro tempo, pronunciato da alcuni lettori disposti sui diversi palchi di un teatro. A tratti la singola voce, il singolo racconto, risuonano nel buio della platea: un io senza nome legge agli altri perché gli altri possano riconoscersi nelle sue parole e ricordarle, ma in altri passaggi le voci si mescolano, si sovrappongono e si cancellano, si consumano, come date in pasto a un presente che non distingue e non ascolta.
La lettura, però, non è solo un atto pubblico, è più sovente una dimensione del pensiero, un esercizio con cui abitare il silenzio mentre si va tessendo un intimo colloquio tra la pagina e l’io. Quella dimensione, dall’inizio degli anni Sessanta, è stata il luogo di una possibile identificazione della pagina bianca con la tela intonsa e della pura grafia con il tratto del disegno.
In una serie di piccole salette di Palazzo Cisterna, non molto più grandi di quelle celle monacali nelle quali le ore di lettura individuale avvenivano secondo la regola degli ordini, alcuni libri d’artista sono esposti accanto ad altre opere nate in dialogo con la forma-libro.
Il primo sentiero che condusse gli artisti alla pagina muta fu l’azzeramento degli elementi primari del testo. Piero Manzoni: life and work, la cui prima edizione è del 1963, è un volume composto di pagine di acetato trasparente in cui non solo la parola dispare, cancellando l’autore e la sua storia, ma la pagina si fa astrazione di sé stessa, rettangolo senza corpo. Lascia che lo sguardo la trapassi, negando il tempo lento della lettura e il significato che nasce dall’addizionarsi di parola a parola, dal susseguirsi di pagina a pagina.
Dalla fine di quel decennio Irma Blank lavora a una serie di Eigenschriften, scritture assolute, libere da significati, affrancate dall’ambiguità delle parole. Sono grafie che l’artista definisce segni primordiali e indifferenziati, scritture purificate dal senso. Il tratto vibrato, continuo, senza caratteri, è trascrizione ritmica del respiro, affermazione dell’essere che emerge dal silenzio, come nelle cosmogonie il mondo emerge dal buio del nulla.
Le tenebre del non-essere offrono l’altro volto del silenzio. Macchie nere coprono le parole del Cristo cancellatore di Emilio Isgrò in una forma di contro-creazione del significato, di presenza pittorica e fisica per annullamento del codice. Dello stesso anno, 1968, è il libro La scultura buia di Franco Vaccari dove la stampa fotografica su gelatina ai sali d’argento occupa la superficie del foglio di un’oscurità profonda nella quale discendere e sostare come in uno spazio senza coordinate.
Il libro è scultura, lo è nell’etimo condiviso del volume, nel corpo degli antichi rotoli da svolgere come nastri di tempo, nei manoscritti custoditi in scatole di legno come nel segno inciso sulla cera.
È scultura Extrapagina di Grazia Varisco, 1975, nel suo squadernarsi muto lungo l’asse del dorso, mostrando le pieghe che raccontano di annotazioni e distrazioni dal testo e dalla lettera della geometria euclidea. Il libro è immagine di spazio nel Quaderno di Massimo Bartolini, 2003, su cui crescono lenti alberi adorni di foglie, disposti lungo le pieghe della carta come fossero viali di un giardino. Ed è volume silente nel Non rifilato di William Xerra, 1972, dove i grandi fogli bianchi dei quartini sono lasciati interi, ancora ripiegati su sé stessi.
Il libro chiuso talvolta partecipa della stessa intima sacralità dello spazio che emana da uno scrigno. Così è per Universum di Maurizio Nannucci del 1969. Sigillato in una doppia legatura che stringe le pagine in una sorta di ellittica, è immagine dell’espansione inconoscibile del cosmo, dell’impenetrabilità del mistero che lo ha generato.
Talvolta è il lettore, il suo corpo silente che si fa scrigno dei significati del libro, che cinge e costudisce il testo nello spazio della propria identità. Around Celine di Francesco Arena del 2013 avvolge i volumi della Trilogia del Nord, opera ultima di Lois Ferdinand Celine, in una scatola di metallo pensata come un autoritratto minimale dell’artista stesso, alta e pesante quanto il suo corpo.
Nel 1975 Paolo Icaro incise su un blocchetto di gesso la scritta racconto per posarlo su un ampio foglio ripiegato di carta da oscuramento usata durante i bombardamenti perché la luce non filtrasse dalle finestre. Nel volume bianco del gesso resta rappreso l’atto della scrittura, enunciato e negato in una promessa. Il blocchetto è custodia e materia stessa di un testo chiuso nella sua potenzialità. È forma assoluta del narrare, antecedente di ogni possibile consumarsi del gesso in grafia e parole contro lo sfondo scuro di una lavagna e contro la notte della storia che il foglio violaceo ricorda.
Il racconto bianco condensato nel gesso di Icaro risponde alla sapienza racchiusa nelle parole della vecchia narratrice descritta da Karen Blixen: “Chi, allora – ella continua – racconta una storia ancora più bella delle nostre? Il silenzio. E dove si legge una storia più profonda di quelle scritte sulla pagina più squisitamente stampata del più prezioso di tutti i libri? Sulla pagina bianca.” Sabrina Mezzaqui trascrisse nel 2005 l’intero racconto La pagina bianca di Blixen su carta velina, esercitando l’antica arte della copiatura come la forma più autenticamente fedele di lettura, osservando nel proprio lavoro quella fedeltà alla storia a cui la vecchia narratrice esorta perché “Dove la storia è stata tradita. Il silenzio non è che vuoto.”
Ancorché lontana dall’assoluto del bianco, l’intera opera di Maria Morganti è un esercizio di fedeltà al silenzioso racconto del tempo. Il suo Leporello 30 strati n°5, 2008, traduce in forma di libro, grazie alla tecnica serigrafica, la sovrapposizione tipica della sua pittura in cui strato di colore si va sovrapponendo a strato di colore, giorno dopo giorno.
La sovrapposizione di segni, colore e pagine interviene come processo generatore di silenzio nelle opere di Morganti come nell’album Autumn Leaves di Luca Bertolo, del 2015, e in alcune serie fotografiche di Alessandra Spranzi, come Fiori del 2016. La sovrapposizione è operazione opposta al processo di azzeramento che aveva condotto alla pagina muta negli anni Sessanta.
Spranzi ritaglia figure da libri, riviste, enciclopedie e il vuoto lasciato dalle silhouette diviene cornice di quanto appare nella pagina sottostante, andando a comporre un testo che unisce su un unico piano parole e immagini non corrispondenti, contorni positivi e negativi. Le pagine così ricomposte cancellano l’assertività divulgativa del sapere annullando l’evidenza didattica dei testi originari in una ambigua dimensione d’enigma.
Anche le linee scarabocchiate da Bertolo sui suoi realistici disegni di foglie autunnali appaiono cancellazioni dell’univocità e dell’intelligibilità dello spazio della pagina per via di sovrapposizione. Il profilo involuto delle foglie accartocciate, l’eleganza e la complessità della linea curva che ne segue il loro corpo sottile e disseccato, si specchia, quasi liberato, nei soprastanti segni di gestualità agitate e irrisolte tra il vandalismo e una possibile danza, come quella di una grafia che smarcata dal dovere del dire si liberi nel silenzio dell’arabesco.
Non è possibile in questo breve spazio ricordare tutti i diversi silenzi racchiusi nelle opere esposte in Lettura per voci e silenzio. Non è possibile perché il racconto del silenzio non è espressione univoca e assoluta come potrebbe apparire, ma possiede tante sfumature quante ne possiede il colore bianco, tante variazioni quanti sono i diversi timbri di voce, tante dissimili temperature emotive quante possono essere le attitudini con un cui un lettore si accosta alle pagine di un libro ancora chiuso.