# 15.14
Caffetteria (fondazione querini)
FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA
CONDENSARE IL COLORE
Il progetto ha origine dal Quadro per la Sala dell’800 che ho dipinto nel 2008 durante ripetute visite alla Pinacoteca del Museo.
Il quadro prende spunto dai colori presenti nei dipinti della Sala dell’Ottocento e in particolare dal fiore tra i capelli della figura del quadro del Milesi (La Modella, 1910) che ho visto come fosse la tavolozza sulla quale il pittore ha ragionato sui suoi colori. Come se quel fiore fosse diventato il luogo dove ha finito per pulire i suoi pennelli, il punto di riflessione, il suo pensare per colori anziché per parole. Nel corso di ogni visita, accoglievo un colore e lo portavo con me in studio, materializzandolo in uno strato di pittura sulla tela. Il mio quadro è l’esito della sovrapposizione di queste esperienze.
DILATARE IL COLORE
Quando Chiara Bertola nel 2015 mi ha chiesto di pensare ad un progetto per la Caffetteria di Mario Botta ho deciso di ritornare a quel quadro.
Ciò che ha permesso di realizzare l’idea, l’elemento su cui mi sono concentrata per estrarre i colori per traghettare l’idea originale nella realtà (1), è stato il piccolo diario di pennellate nel quale ho registrato tutti i colori mentre sviluppavo il dipinto.
Sono partita dal “grumo”, dal fiore, assumendolo simbolicamente come fosse il punto condensato del pensiero del pittore, per domandarmi come espandere questo gesto intimo e denso. Come allargarlo nello spazio? Come pensare ad un gesto ampio? Come portare verso l’esterno in una scala grande e pubblica questo segno così piccolo? Come passare dall’intimità all’esteriorità? Come dare forma al colore che si è formato nello studio quotidianamente che è poco e concentrato?
Ho immaginato che il dipinto si espandesse, si aprisse, che il colore si distribuisse nello spazio. Ho pensato a una dilatazione del quadro nell’architettura come se ogni singolo strato si sfogliasse tridimensionalmente nell’ambiente. Attraverso una prevalenza di verdi, azzurri e una forte presenza del rosso, il quadro si è moltiplicato in tanti quadri separati.
Ho percepito l’architettura, ho sentito lo spazio di Mario Botta, come il luogo che dava la possibilità al mio colore di adagiarsi, di stare, di prendere il suo spazio.
Ogni singolo colore, è espressione di un’emotività incontrollata e ha bisogno di essere tenuto, compresso, abbracciato, accolto.
I due piani grigi e orizzontali, il soffitto e il pavimento, tengono tra di loro tutte le superfici colorate. Tra di loro stanno i colori distesi in pareti verticali scandite, sezionate, separate le une dalle altre da linee, da cornici di ferro nere che ne disegnano i confini.
E così accade che la voce dell’architetto si sovrapponga a quella del pittore: Luoghi del finito. Costruire spazi “finiti” per indagare e scoprire condizioni “infinite”! E’ questa la condizione naturale di lavoro entro la quale opera l’architetto. L’idea di luogo (sempre un UNICUM) presuppone l’esistenza di un limite che si realizza in uno spazio concluso... (2)
DALLA TELA COME SUPPORTO ALLA TELA COME MATERIA-COLORE
Alcune volte si rende necessario uscire dalla propria ripetizione e provare a sconquassare il ritmo intersecandosi con la processualità di qualcun altro, di qualcos’altro. Ciò che muove il lavoro è sentirmi in sintonia, trovare similitudini, uguaglianze e non differenze. Partendo dai punti di contatto, dall’aderenza con un’altra esperienza possono nascere delle congiunture. Quando il mio sistema interno converge con un sistema esterno che ha delle similitudini con ciò che faccio, si crea un cortocircuito e si attua qualche cosa che può diventare un terreno comune dove più soggetti riescono a riconoscersi.
L’incontro con l’Azienda tessile Bonotto e con la collezione dei tessuti della Fondazione Querini nel 2016 sono state le due entità con cui mi sono confrontata in maniera empatica.
Dice Doretta Davanzo Poli nella pubblicazione sui tessuti della Querini: Dalle vicende delle tappezzerie queriniane, è possibile trarre (…) un’importante suggerimento, da considerare come uno dei tanti contributi tentati per risolvere la (…) problematica relativa alla conservazione o sostituzione delle tappezzerie nelle dimore storiche. Tra le soluzioni fino ad oggi sperimentate le più comuni sono state: il restauro del tessuto e la sua mummificazione sulle pareti nello stato in cui si trovava (…) oppure il rimpiazzamento del tessuto con altro similare (…). Soluzione coraggiosa (…) proiettata nel futuro per l’interesse capace di suscitare in chi resta (…), potrebbe essere quella di continuare a fare, almeno in questo contesto, ciò che si è fatto per secoli, e cioè a sostituire le vecchie stoffe rovinate con nuove. (…) In questo modo, oltre a tramandare esemplari tessili di qualche interesse per la storia del tessuto d’arte (…) si verrebbe a degnamente seguitare l’originale “collezione” queriniana. (3)
Ecco la risposta alla sollecitazione: aggiungere un nuovo “strato” alla collezione della Querini e alla stesso tempo un nuovo “strato” alla collezione dei tessuti Bonotto.
Ho immaginato di tradurre il gesto del pittore (spalmare colore ad olio sulla tela) nella pratica dell’azienda Bonotto (formare il tessuto attraverso una trama e un ordito) e ho traslato così ogni singolo strato di colore in una tela colorata. Dalla tela come supporto della pittura, alla tela come essa stessa materia-colore.
Se ogni singola pennellata di colore è costituita da tantissime gradazioni così il tessuto che ho elaborato con Bonotto è composto da tanti fili diversi che assieme vanno a creare un unico colore. Da lontano appaiono come grandi campiture monocrome, ma quando ci avviciniamo capiamo che il colore è composto da tantissime sfumature. Si tratta dell’ingigantimento del gesto pittorico, senza mediazione, senza distanza che costringe ad un rapporto ravvicinato e diretto con il colore. Percepiamo inoltre che ogni tela ha un davanti e un dietro. Il retro è sempre rosso. Come nei miei quadri dove il primo strato è sempre rosso. Si parte sempre dal rosso. Ogni colore si sovrappone sempre a partire dal rosso. Nel tempo con l’usura può essere che il tessuto in alcune parti si consumerà e allora mostrerà questa parte nascosta del lavoro.
Poi se ci allontaniamo dalla visione ravvicinata della materia e ritorniamo ad una visione più allargata notiamo che la massima larghezza delle campiture è di circa 160 cm. Questa è determinata sia dalla specificità del telaio dove viene tessuta la tela, ma anche dalla misura più grande di tutti i miei quadri. È la misura più o meno dell’altezza di un essere umano e della massima apertura delle braccia.
RIMETTERE INSIEME CON LO SGUARDO
Al fine ci rendiamo conto che il lavoro in realtà è un Dittico, composto cioè da due parti: un quadro nel museo e un intervento nella caffetteria. L’opera si compie nella sua interezza quando saliamo al secondo piano e ritorniamo di fronte al quadro nella Sala dell’800 del Museo. Il cerchio si chiude, il progetto si attua nel momento in cui ricomponiamo, attraverso la nostra percezione, il processo a ritroso nel tempo. L’immaginazione torna dove le cose sono nate.
CONSIDERAZIONI – APPARIRE DISAPPARIRE
Nel momento in cui ho cominciato ad immaginare questo progetto, un’opera per quello spazio, ho pensato che il mio compito era anche quello di tenere insieme tutti i pensieri, la storia, i percorsi e le esigenze dei diversi soggetti: l’artista (io), la curatrice (Chiara Bertola), l’architetto (Mario Botta), il museo (la Querini, con tutta la sua storia e la sua collezione), l’azienda tessile (Bonotto) e soprattutto il pubblico, le persone che avrebbero vissuto quello spazio nel futuro: dagli studenti che utilizzano la biblioteca per studiare ai visitatori del museo.
Quando Chiara Bertola mi ha invitato a pensare ad un progetto apposta per quello spazio, subito, di primo acchito, come faccio di solito quando mi propongono delle cose nuove che non conosco, le ho risposto di no. Mi spaventava l’idea di dilatare il mio gesto pittorico, intimo che ogni giorno nel mio studio viene scandito dal ritmo dell’esistenza che di solito è nascosto, piccolo e concentrato. Non mi piaceva l’idea di tradirlo per portarlo su un piano ampio, in una dimensione fuori scala, in un luogo pubblico, caratterizzato dal fatto che le persone che lo vivono lo attraversano con uno sguardo distratto, in maniera, diciamo così, svagata, non “contemplando” l’arte, ma dove vanno a passare del tempo in maniera leggera e spensierata.
Dopo aver pronunciato il mio no, che come sempre mi serve per crearmi uno spazio libero di ragionamento, mi sono presa un po’ di tempo per poi venirne fuori con una proposta. Una proposta che pur mantenendo alcuni punti fissi del mio pensiero usciva dalla mia normale pratica e prendeva in considerazione tutto quello che era legato a quel contesto aprendomi così a nuove possibilità linguistiche.
Anzi proprio quello che all’inizio mi era sembrato un limite, un ostacolo è diventato invece il punto cardine che mi ha dato la possibilità di spostare il lavoro su un altro piano.
Tutto quello che inizialmente mi sembrava cancellasse il senso più profondo di ciò che faccio, che non facesse apparire ciò che di solito sono abituata a vedere uscire da me stessa, si è rivelato invece proprio il motore per farlo apparire ancora, ma sotto una luce nuova, diversa.
Uscire dallo spazio incorniciato del museo cioè uscire dallo spazio contestualizzato, deputato all’arte mi ha obbligata a varcare la soglia, a immaginare uno sguardo non più frontale, ma trasversale ed in fondo a prendere le cose con più levità.
In fondo per me questo è quello che determina il successo di questo lavoro: l’essere prima apparso davanti ad uno sguardo consapevole e poi dis-apparso ad uno sguardo inconsapevole.
C’è differenza tra lo sguardo del pubblico quando si trova in un museo, in una galleria, in un’istituzione dedita all’arte, nel luogo dove l’opera viene dichiarata tale e garantita perché difesa dalle distrazioni esterne. C’è differenza da quando lo sguardo invece si trova in un contesto aperto, non definito, non dedicato all’arte. Lì siamo noi che dobbiamo dare un senso, un significato a ciò che vediamo.
Ed è con questo secondo sguardo che ho dovuto fare i conti. Con la casualità di una visione disattenta, deconcentrata, soprappensiero che ha potuto dare un’interpretazione più lieve e più aperta. In fondo andar fuori dai confini, uscire dalla cornice ha permesso al gesto di calarsi nella realtà.
In fine mi verrebbe da dire che in fondo questo lavoro è diventato esattamente l’opposto di quello che mi ero ripromessa all’inizio.
Invece di determinare una forma che mi sembrava apparire davanti agli occhi per la prima volta, è diventato al contrario qualcosa che sembra essere lì da sempre, talmente integrato al luogo da sembrare esserne parte naturale, un elemento tanto integrato nello spazio da scordarsi della propria esistenza in quanto opera.
1, 2: Mario Botta Quasi un Diario. Frammenti intorno all’architettura, Le Lettere, Firenze 2003 e Mario Botta Quasi un diario. 2003-2013, Le Lettere, Firenze 2014.
3: Doretta Davanzo Poli Tessuti inventario, Fondazione Querini Stampalia, 1987
(Scritto nel 2017)