Opera in cinque parti dentro e fuori quattro vetrine.
Considero questo un lavoro a quattro mani dove Matteo Nucci con la parola ed io con il colore diamo vita ad un'unica esperienza.
1° parte: “Sedimentazione 2013 #4”
Giallo, arancio, ocra. Dedicato a Roma.
Ogni giorno mi dirigo verso la mia tazza e aggiungo un colore a quello che è rimasto del giorno precedente. Il colore che parte da un'unica matrice si trasforma lentamente nel tempo. La materia che si è formata viene stesa sulla tela. Uno strato sopra l'altro. Il gesto è sempre quello: spalmare una materia fluida su una superficie bidimensionale, fino a coprirla quasi del tutto, ma mai totalmente. Il processo si dichiara: in alto rimane un bordo che racconta il passaggio di tutti i colori che mi hanno portato a quel ultimo strato.
2° parte: “Nel travertino”
Una lastra di travertino, materia di cui è fatta Roma, puntellata da piccoli frammenti di pittura.
Ogni giorno in studio stratifico con un colore di pongo sopra una tavoletta di legno. Una volta terminata la “Stratificazione” taglio, seziono il pongo, ne ricavo parti, pezzetti di pittura che infilo negli interstizi del travertino.
3° parte: “Impronta 2010-2012”
La carta che proteggeva il tavolo su cui ho lavorato per 2 anni alle mie carte. La mia “Impronta” è ciò che sta dietro al lavoro. Ciò che non vediamo, ciò che rimane, lo scarto, l'accumulo della materia attorno al farsi della pittura. La stratificazione del tempo, dell'esperienza. Il luogo che è stato del procedere e del ragionare attraverso il colore si è trasformata in una tavolozza-sindone. Il contatto che ha generato la traccia.
4° parte: “Stratificazione. Frammento di pittura con agata.”
Una “Stratificazione” di colore avvenuta nell'arco di circa quattro mesi del mio tempo, si accosta ad una pietra. Il tempo geologico e il tempo umano. Due tempi a confronto. Due esperienze diverse di lunghezza che si rapportano l'una con l'altra.5° parte: “Schegge”Piccoli frammenti di pittura, escono, come in seguito ad un'esplosione dalla vetrina e si insinuano negli interstizi della cornice esterna.
MATTEO NUCCI
I diari di via dell’Oca e via della Penna
19 dicembre 1980 – Sedimentazioni
“E adesso… un vino” disse e spalancò le braccia e mi apparve gigantesco. In alto sulla piazza affollata di macchine, oltre alla cima dei pini, sbiadite slabbrate sfumature di grigio e blu striavano il cielo nel crepuscolo invernale. Le luminarie erano accese su via di Ripetta e mio padre disse “Non qui. Qui viene sempre Serena, da via del Babuino, a fare colazione. Ma ora noi ce ne andiamo all’enoteca”. Lo seguimmo sul marciapiede ghiacciato. Indossavo una giacca a vento con strisce bianche rosse e blu sulle spalle. Mia sorella portava un cappotto marrone. Lui il suo Loden. Indicando l’insegna antica, allungò il passo oltre l’uscio, si avvicinò al bancone, chiese due vini rossi e un bicchiere vuoto. Il secondo vino lo divise a metà e ce lo allungò mentre chiedeva se preferissimo olive o salatini. “A Natale potete permettervelo un vino” disse e brindammo.
Papà ha istituito una tradizione: andiamo a comprare piccoli regali di Natale per mamma. Giriamo per i vicoli del centro. Ci indica le case dove hanno vissuto pittori, politici, scrittori. Ci porta nelle chiese profumate di incenso. Ci fa vedere come Roma è cambiata dal tempo dei Romani. C’è una piazza dove tutto questo è chiaro. Le colonne antiche reggono un palazzo. Si chiama Piazza di Pietra. Ma il suo posto preferito non è quello.
1 agosto 1987 – Nel travertino
L’odore della città alla stazione era il catrame infuocato e l’erba bruciata sui bordi dell’asfalto e le strade vuote solitarie deserte. Entrammo in macchina, chinandoci, Costanza andò a sedersi dietro, mentre io davanti aprivo il tettuccio eppoi gridai mentre l’aria entrava calda e lui scuoteva il capo ridendo. Passammo sotto le mura aureliane, c’infilammo tra i vicoli del centro e raggiungemmo la pizzeria. Eravamo abbronzatissimi, io e Costanza, lui no, lui non prendeva il sole, leggeva il giornale all’ombra senza togliersi la cravatta neppure in spiaggia. Diceva “tra poco compirò cinquant’anni e comincerò tutto daccapo”, noi lo prendevamo in giro.
Non riesco a definire la sensazione che provo tornando a casa d’estate. Vorrei rivedere la mia stanza, sento che c’è qualcosa che mi aspetta e quando entro cerco invano sul tavolo. Dev’esserci un segno che possa ricondurmi a quel che mi aspettavo di trovare e non sapevo dire, ma quel segno non c’è. Il tavolo è pulito, qualche macchia di colore, i fogli come li avevo lasciati prima di partire. La fortuna è che ogni volta papà ci viene a prendere in Cinquecento e ci porta a mangiare fuori. Di sera, prima di tornare a casa, tutto sembra perfetto.
3 febbraio 1994 – Impronta
Uscimmo dalla chiesa e senza dire una parola attraversammo la piazza da poco pedonalizzata. Il giorno prima, la tramontana aveva spazzato la città e faceva freddissimo. Oltre il bar e il ristorante, voltammo sul vicolo per raggiungere il Lungotevere e la macchina parcheggiata. Mentre guidava verso il Muro Torto, mio padre disse che tra le carte di lavoro avevano trovato gli ultimi versi che lei aveva tradotto: “una ninfa dell'Averno aveva partorito Ascalafo”. Scoppiai in lacrime. C’era un sole sbiadito, impiastricciato di nuvolaglia bassa, sul Verano. Feci in tempo a vedere Lucia con le sue mani bianche che gettava un fiore bianco nella tomba aperta dove era già stata depositata la bara di legno bianco.
La prima volta che ho visto mio padre piangere è stato lì, nella chiesa degli artisti. Era per la mamma di Filippo. Avevo dodici anni, esattamente dodici anni fa. Piangeva senza coprirsi, ma teneva gli occhi bassi. La chiesa era zeppa di fiori, una quantità di fiori impressionante. Filippo orgoglioso mi disse “mia madre ama molto i fiori”. Usò il presente. Uso ancora il presente, sempre, non si può usare il passato. Oggi l’ho fatto mentre entravamo al Verano e mi sono sentito ridicolo. Come se fosse una forzatura. Ma credo che lui non se ne sia accorto.
16 settembre 2003 – Stratificazioni
“Proprio qui accanto, al 27 dell’Oca, viveva Elsa Morante” dice Sergio agguantando un altro bicchiere e intanto mi mormora all’orecchio “Sti stronzi vogliono sentire ste cazzate e io gliele dico”. Si sta ubriacando. Agnese, la sua fidanzata, vorrebbe fermarlo ma le viene da ridere ogni volta che lo sente parlare. “In fondo è la migliore scrittrice del Novecento” dice lui a una signora che è qui abitualmente a comprare vestiti e ora contempla le tele dipinte di nulla per il vernissage. La proprietaria si aggira nervosa. Sua figlia mi chiede se vorremo uscire più tardi. Le dico che non so e che intanto vado a fumare una sigaretta in strada.
Mia nonna passò anni a elencare i negozi che aprivano e chiudevano sul Corso e i dintorni. Ho provato a raccontarlo a Sergio. Gli ho spiegato che avevano vissuto sempre in via dei Prefetti, un palazzo da cui erano stati sfrattati e che poi è rimasto vuoto per decenni. Era inaccettabile, per loro, lo sfascio della città. Adesso che l’enoteca Buccone ha messo tavoli di pietra tra le infinite distese di bottiglie e non c’è più il bancone dove bevemmo i nostri primi vini dell’infanzia, vorrei poterlo dire, a mia nonna. L’ho scritto in un messggio telefonico a mio padre, mentre eravamo lì a bere, tutti chiacchieravano e io osservavo da vicino le mensole di legno, un legno antico scheggiato moribondo elettrico.
5 aprile 2014 – Scheggia
Mi trovo di fronte Attilio, mentre esco dall’hotel, ma riconosco prima suo figlio. Per ultima vedo Maria, sua figlia. Mi dice: che fai qui? Gli spiego che Anna è in città e sono andato a trovarla. Indico gli arabeschi art deco disegnati in legno sulle vetrate. Lui, elegantissimo come sempre, ridacchia. Poi mi chiede di accompagnarlo dal miglior fioraio di Roma, ossia un baracchino improvvisato su via Maria Cristina dove un vecchio dandy gay accatasta pochi sceltissimi esemplari che maneggia il suo aiutante, un ragazzo dell’est. Dice Attilio che la professione del giornalista è finita, quasi finita, senonaltro finché quotidiani e riviste continueranno a vedere in internet un nemico. A suo figlio non consiglierà di seguire le orme paterne. Intanto fuma la sua pipa e io gli indico il portone oltre cui nacque L’isola di Arturo.
Fu il giorno in cui cominciai a scoprire i luoghi dove mio padre era nato. Decise lui di portarci all’Aventino eppoi a via dei Prefetti eppoi ci fece percorrere via del Corso e girò dietro l’angolo e disse che un giorno ci avrebbe fatto bere e brindare con lui. Entrò e comprò una bottiglia. E ora la compro io, lascio che la incartino e la porto con me tenendola per il collo, fredda, bianco freddo nel primo sole caldo, la carta leggera che si è già attaccata al dorso bagnato e forse dovrò rinfrescarla prima di stapparla con lui e brindare alla primavera che come una diramazione improvvisa sulla costante temporale è arrivata molle impetuosa di pietra.
(Scritto nel 2013)