# 26.02
Ostensione
L’evento attraverso il quale l’archivio delle tracce dell’esistenza si tira fuori, si espone e si riattiva con l’aiuto degli altri.
Fare accadere le cose con semplicità e fluidità, fare uscire il pensiero con libertà. Tacere, parlare poco, portare avanti un lavoro muto, appartati, in riservatezza per definire una visione del mondo raccolta e contenuta. C’è un punto in cui la parola deve ritrarsi e lasciare parlare le cose così come sono, così, esattamente come vengono fuori. Alla pittura è concesso il silenzio, è proprio l’arte di fare qualcosa in silenzio, di dire qualcosa in assenza di parola. Se questo è il principio a cui si vuole far riferimento come si fa a prendersene cura e far sì che questo atto possa essere effettivamente portato avanti e sempre continuato? Se questo è il nucleo, se proprio questo è il punto essenziale che si vuole far emergere, come si può fare per evidenziarlo?
Ho immaginato il luogo ideale dove poter coltivare e fare accadere tutto questo, giorno dopo giorno, progettando uno spazio che ho intitolato “Luogogesto”, quasi metafisico, assoluto, racchiuso su stesso, contenuto e circoscritto, definito dalla misura che l’azione del mio corpo determina quando si muove e si ferma prima sopra alla “Ciotola” per permettere al colore di generarsi e poi davanti alle superfici pittoriche per imprimervi le proprie tracce. Per fare in modo che le concrezioni colorate possano materializzarsi ho deciso di costruire una specie di palcoscenico per un gesto privato da fare in isolamento, e per sottolinearla, questa azione, ho pensato che il rito dovesse essere posto su di una specie di piedistallo. E successivamente mi sono domandata: dove mettere tutta questa materia prodotta nella propria concentrazione singolare? Per rispondere a questa esigenza ho concepito gli “Archiviatori” che sono dei dispositivi dove far stare l’emotività, depositi dell’intimità entro cui l’essenza generata dal gesto si adagia, strutture dove la realtà interiore è contenuta, così, esattamente come un dato oggettivo più che come una forma espressiva.
Tutta questa sostanza prodotta, con rigore ed ossessione, dal lavorio della mente, della psiche e della mano, necessita, poi, attraverso un movimento ritmato e continuativo, di essere messa in relazione con il mondo esterno. Per alimentarsi questa condizione ha bisogno di essere condivisa con gli altri nella speranza di trovare, in questi altri, una qualche forma di interlocuzione.
Se in un certo senso il punto in cui la sostanza interiore incomincia a presentarsi al mondo reale è proprio nel costituirsi del corpo dell’opera (Jean-Luc Nancy dice: “l’essere del corpo, in quanto corpo, si espone”), il territorio in cui invece si potrebbe espandere è quello dell’esposizione, cioè quello in cui si manifesterebbe in un ambito pubblico, fuori dallo studio. Ciò che sposta il ragionamento verso questa direzione è proprio il desiderio di visualizzare la distesa di tutto questo colore per comprendere attraverso lo sguardo la dimensione concreta dell’esistenza. Riempire gli occhi di tutta la pittura accumulata per rendersi conto del tempo trascorso sarebbe l’opportunità per capire e per assimilare tutto quello che altrimenti rimarrebbe per sempre chiuso nell’oscurità della scatola chiusa.
Mi piacerebbe progettare una mostra come fosse una casa per l’intimità e renderla pubblica. Vorrei costruire un luogo dove fare abitare il pensiero e la materia, uno spazio capace di abbracciare il corpo del lavoro e al contempo renderne chiaro il senso.
Immagino un’azione, che potrebbe ripetersi diverse volte e avvenire in modi differenti, attraverso la quale tutto quello che è si è dipanato lentamente negli anni si possa sviluppare all’interno di una durata rappresa e concentrata.
La vedo come una mostra in due tempi che porti al suo interno due azioni opposte e complementari che potrebbero essere definite con questi due verbi: aprire e contenere, ma anche con: svelare e occultare. Nella prima parte tutte le superfici pittoriche si organizzerebbero le une accanto alle altre in una lunga sequenza cronologica e lineare obbligando, per percepirle nella loro interezza, ad uno spostamento fisico nell’ambiente. Nella seconda parte invece le stesse opere tornerebbero a richiudersi su sé stesse all’interno dei loro contenitori diventando piccoli agglomerati visibili con un’occhiata. Ci domanderemmo: è tutta lì la sostanza della nostra vita? É così poca, è cosi piccola? Questi grumi, queste densità contratte ci farebbero vedere come fossimo delle micro-particelle in una costellazione universale relativizzando la nostra presenza.
Stacchiamoci ora dalla rappresentazione dell’interiorità e procediamo verso l’idea che il nucleo privato debba essere tenuto in mano dal corpo collettivo. Se pensiamo cioè a tutto l’accumulo e allo stratificarsi del colore nei giorni non come ad un’espressione individuale autobiografica, ma come allo stendersi di qualcosa di tangibile che affonda le radici in una materia generale, allora questo porsi verso l’esterno non dovrebbe assumere il senso di un’ostentazione, dell’esternazione di un sé privato, di uno sbrodolamento interiore, ma l’esposizione di una realtà oggettiva, che ci riguarda tutti. Quello che sto cercando di dire è che quando utilizzo espressioni come emotività, soggettività, individualità le penso non in un senso intimistico, ma in un senso paradigmatico pensando che ognuno di noi non può far altro che partire da sé posandosi su di un terreno comune per giungere alla tanto aspirata comunicazione con gli altri.
Ed è proprio per dirigermi verso questa aspirazione che mi spingo in direzione di questa raffigurazione: dal rito individuale della formazione della materia pittorica a quello collettivo della sua esibizione, in una specie di happening, di cerimoniale non solenne, piano piano, gradualmente tutti i singoli elementi colorati, i “Diari”, il “Quadro infinito”, le “Sedimentazioni” si irradierebbero prendendo posizione nello spazio guidati dai corpi di diverse persone.
Il “Luogogesto” con i suoi “Archiviatori” li vedrei posti al centro di uno spazio molto grande per far percepire quanto una singola vita sia così piccola in rapporto allo spazio del mondo, per dire anche che accanto ad essa ci sarebbe lo spazio vuoto per molte altre esistenze, per affermare che questa particolare esistenza non sarebbe l’unica, ma, solo in quel preciso momento, risaltata per rappresentare ogni altra nella sua specifica singolarità.
Se è vero che sono proprio io la prima osservatrice di questo materializzarsi della sostanza, il portarla fuori dal silenzio per estenderla allo sguardo altrui è ciò che la renderebbe attiva e aperta a tutte le possibili nuove rivitalizzazioni. Se il formarsi della parola-colore succede come ho descritto in totale solitudine, l’”Ostensione” invece non potrebbe che avvenire in condivisione, con e in mezzo agli altri. Se tutto quello che è accaduto nella totale concentrazione dell’isolamento è come se si occupasse solamente di un momento antecedente alla determinazione di qualsiasi conformazione definita, è solo durante l’esposizione, invece, che si riuscirebbe a plasmare infine una possibile compiutezza.
Ho solo tracciato qualche spunto. Mi fermerei qui, non vorrei aggiungere altro su quale effettiva forma tutto questo possa prendere. Non volendo essere da sola a determinare le cose chiedo ad altri individui di immettersi nel mio processo interrompendo la mia unicità di autore. Vorrei che a questo punto entrasse la fantasia e il pensiero delle persone che mi sono vicine per aiutarmi a visualizzare come tutta questa massa di colore possa prima essere espansa e poi richiusa attraverso una specie di ritualità collettiva permettendo a tutti di entrarci, di sentirsene parte, di esserne partecipi.
(Scritto nel 2021. Modificato nel 2022)